Norcia Sabina
Lungo la dorsale appenninica si veniva pian piano delineando un territorio diviso da confini naturali, quali i fiumi e la vera e propria catena degli appennini. Questo territorio tipico del centro Italia, ricco di monti medio/alti e fiumi, divenne presto la zona della civiltà sabina. Diverse sono le teorie sulle origini sabine:
- Prende il nome da Sabino, figlio della divinità Sancus; i suoi primi membri provenivano da Testruna, nella regione di Amiternum, ai piedi del Gran Sasso (Catone).
- Derivano, secondo Cneo Gellio, dallo spartano Sabus, un condottiero irrefrenabile. Da questa teoria è nata, poi, la credenza che i sabini fossero un popolo di coraggiosi e caparbi, in quanto avevano ereditato le doti combattive del loro padre.
- Secondo il greco Zenodoto di Trezene i sabini erano stati, da sempre, una popolazione umbra autoctona che, scacciata dai Pelasgi, si era stabilita nel circondario di Rieti.
- E’ un popolo di antiche origini che governava delle colonie (Strabone).
E’ idea un po’ generale che il dio padre dei sabini, comunque, fosse Sabo, per alcuni Sanco; la radice del nome stesso corrisponderebbe, secondo il greco, a sebastai (=venerare), da cui, poi, è venuto a nascere e a diffondersi il nome Sebastiano.
Norcia si trova, geograficamente parlando, nella zona nord-est della regione sabina e copre, oggi come nell’antichità, una posizione strategica di indiscutibile importanza, anche se povera. L’agricoltura, tipicamente di autosussistenza, si fondava in particolar modo sul farro, un cereale che veniva coltivato senza enormi risultati nei piani interni della regione sabina. L’allevamento era molto sviluppato, tanto che, ancora oggi, famosi sono i muli arietani; tutto ciò era completato dalla presenza abbondante di vigneti ed oliveti. Le abitazioni sabine erano, in realtà, capanne di paglia e argilla dai tetti spioventi, per permettere alla neve di scivolare verso il basso e non gravare, così, su un già precario riparo. Socialmente vigeva il concetto di una famiglia allargata, riunita in un’unica casa, con un capofamiglia a cui far riferimento per ogni cosa e dal quale si ricevevano gli indirizzi per una corretta organizzazione familiare. I sabini sono stati popolo di inumatori. Nel loro culto dei morti i cadaveri non venivano bruciati come già avveniva in diverse civiltà del tempo, ma venivano inumati, perchè il caro potesse riabbracciarsi alla madre terra dalla quale era nato. Era, questa, una concezione stanziale, per la quale si potesse avere, dopo il rito, un punto di riferimento dove andare a pregare per i propri cari. Testimonianze di questo tipo si hanno nei ritrovamenti archeologici tombali della zona, ricchi di simboli di potere e di oggetti di vita quotidiana. Secondo il rito funebre sabino, sopra la tomba del defunto doveva essere consumato un ricco pasto, una sorta di festeggiamento per la sua nuova nascita in una vita migliore. In questo ultimo aspetto, forse l’unico, il culto dei morti sabino si diversificava da quello del cristianesimo, perchè, secondo questo, soltanto Gesù, attraverso il suo sacrificio, ci permette di raggiungere il paradiso. Quello sabino era anche un popolo migratorio; l’agricoltura, essendo essa tipicamente di autosussistenza, molto spesso non era sufficiente a sfamare famiglie tanto allargate. C’è poi da sottolineare che i tempi erano difficili, si conviveva con guerre, carestie e razzie, le piogge erano abbondanti (curiosa è la parola Umbria in questo senso, perchè trarrebbe origine da ombroi, coloro che sopravvissero al diluvio universale descritto nella Bibbia). Per esorcizzare la minaccia di un cattivo raccolto, insufficiente per il fabbisogno alimentare, i sabini compivano il rituale del ver sacrum (=Primavera Sacra), con il quale le primizie della civiltà, i giovani, venivano spediti lontano dalle proprie terre per colonizzarne delle nuove in onore degli dei. Questi seguivano il cammino di un animale considerato sacro, un’incarnazione in terra di una divinità che, se si fosse mostrata nelle proprie sembianza, avrebbe bruciato gli umani. Così, i primi sabini giovani seguirono un picchio, simbolo di Marte, e, arrivati oltre gli Appennini, si stabilirono in un territorio dal cui nome dell’animale sacro venne chiamato Piceno. Ma la concezione dell’animale sacro non si estinse con il popolo sabino: il cristianesimo, che di molto è costituito da antichi rituali e credenze pagane, attribuì ai propri Santi un animale, con il quale vengono spesso raffigurati. Sant’Antonio e il maiale, San Benedetto e il corvo, San Francesco e il lupo, Santa Scolastica e la colomba, e via di seguito.
La storia della Norcia sabina venne presto a scontrarsi, come tutte le storie delle civiltà preromane, con la nascente realtà romana. Il primo contatto tra sabini e romani si ebbe già ai tempi di Romolo. Egli era fratello di Reno e figlio di Marte e Rea (etimologicamente vicina al termine Rieti, sabino). Romolo intrattenne rapporti con Tito Tazio, l’allora re dei sabini. Secondo la legenda Roma, povera di donne in quanto civiltà maschile, invitò i sabini ad una festa con l’intento preciso di trovare delle donne. Il famoso Ratto delle Sabine si ebbe proprio in questa circostanza, ma, contrariamente all’atrocità e alla crudeltà con la quale se ne parla, le sabine decisero spontaneamente di dividersi tra il loro popolo e i romani per porre fine alla guerra che ne era venuta a nascere e per permettere il riprendere delle vite di entrambi i popoli.